Il petrolio è un
insieme di sostanze naturali che si trovano normalmente associate alle rocce
sedimentarie e derivano dalla trasformazione/decomposizione di sostanze
organiche che, anzichè essere distrutte dai normali processi naturali, si
conservano e si accumulano nel sottosuolo per milioni di anni all'interno delle
rocce sedimentarie stesse che via via si formano.
La sua utilizzazione pratica è antichissima; l'asfalto, che è un suo derivato,
fu impiegato nella costruzione della città di UR in Mesopotamia già nel 3000
a.C., per l'edificazione della Torre di Babele, e per vari secoli fu usato come
impermeabilizzante e legante. Ai giorni nostri, il suo impiego è vastissimo,
basti pensare ai carburanti che muovono le nostre macchine, oppure alla plastica
con cui sono realizzati la maggior parte degli oggetti che utilizziamo
quotidianamente...
Come abbiamo
visto nella scheda precedente,
questa è una sostanza che proviene dalla disgregazione e maturazione di
sostanze organiche, e questo processo avviene sotto terra a profondità
variabili, dipendenti dalla temperatura e pressione (finestra dell'olio), e da
vita ai giacimenti petroliferi.
Ma come si sfruttano questi giacimenti e soprattutto come si fa a trovarli?
Lo sfruttamento dei primi giacimenti era
legato all'individuazione di manifestazioni petrolifere naturali e nella
corretta interpretazione del geologo sull'andamento delle strutture. Ancora oggi
si basa principalmente sempre sul lavoro del geologo che deve esaminare la zona
e effettuare gli opportuni rilevamenti, ma fortunatamente, con il progresso
tecnologico, adesso si sono affiancate al lavoro teorico del geologo
strumentazioni che forniscono ottimi indizi e informazioni per una corretta
valutazione finale della zona.
Uno dei sistemi di analisi sfruttati è il rilevamento magnetometrico che
sfrutta il magnetismo terrestre, e viene generalmente eseguito su regioni
piuttosto ampie di territorio. Infatti tutte le variazioni del campo magnetico,
dette anomalie magnetiche, che non sono imputabili a cause naturali
(vedi magnetismo) o artificiali, ad esempio alcune attività
industriali, sono causati da contrasti di suscettività magnetica nelle
rocce del sottosuolo. Le rocce che forniscono questi contrasti sono soprattutto
quelle magmatiche che generalmente formano il substrato su cui poggiano
successivamente quelle sedimentarie; quest'ultime, per questo tipo di analisi,
sono completamente trascurabili.
La forma e
l'intensità delle anomalie registrate è influenzata dalla profondità che può
così essere stimata con relativa precisione. Quindi con questo strumento si
cerca di stimare lo spessore di rocce sedimentarie che si trova nel sottosuolo
e quindi la possibilità o meno che in questo punto si sia formato o meno del
petrolio e/o la presenza di un giacimento.
Accanto a questa misurazione viene effettuata anche quella gravimetrica
che misura le variazioni dell'accellerazione di gravità, ossia le differenze di
massa delle rocce nel sottosuolo; il gravimetro è una bilancia a molla
estremamente sensibile alla quale è collegata una massa costante, quindi
le variazioni di peso misurate sono causate da variazioni nella massa di terra
sottostante, in pratica misura la variazione di densità (quindi del peso
specifico) delle litologie che si trovano al di sotto del gravimetro stesso,
quindi uno strato di basalto (di cui è composto il fondo oceanico) attirerà di
più a se il peso del gravimetro che non uno strato di sale perché il suo peso
specifico è molto più elevato di quello del sale.
In realtà questa
misurazione necessita di numerose correzioni poiché misurando la gravità, è
influenzata da molti fattori come la topografia della zona (se c'è una montagna
vicina, la massa di roccia di questa influenzerà la misurazione), la latitudine
(la terra non è una sfera perfetta, anzi), le maree, la quota a cui si effettua
la misurazione e molte altre. Con questo sistema , si cercano quelle anomalie
di gravità (dette di Brouger) causate da fatti strutturali di grande portata
come le variazioni di spessore della crosta o la presenza di un bacino colmato
di rocce sedimentarie, che sono relativamente più leggere; con una opportuna
elaborazione delle carte si può anche arrivare a mettere in evidenza delle
strutture minori.
Inquinamento marino
L'inquinamento
da idrocarburi può essere sistematico o accidentale. Quello accidentale è
prodotto, nella maggior parte dei casi, dal riversamento in mare di ingenti
quantità di petrolio da petroliere coinvolte in incidenti di navigazione
(collisioni, incagliamenti, incendi, esplosioni, naufragi) ed è causa di
considerevoli danni agli ecosistemi
marini e litorali. Tra gli incidenti più gravi verificatisi negli ultimi
decenni si ricordano quello della Torrey Canyon, che nel marzo del 1967
riversò nelle acque al largo della Cornovaglia
860.000 barili (107.000 tonnellate) di petrolio, e quello della Exxon Valdez,
che nel marzo del 1989 contaminò l'intera baia di Prince William, con ben
240.000 barili (30.000 tonnellate) di greggio, causando la morte di almeno
25.000 uccelli, più di tremila fra foche e lontre, e 22 balene. Altri naufragi
tristemente memorabili furono quello della Erika, nel dicembre 1999, che
riversò sulle coste della Bretagna
13.000 tonnellate di greggio; quello della Jessica, verificatosi nel
gennaio 2002 davanti alle isole
Galápagos, che mise a rischio la preziosa oasi naturale e costrinse le
autorità ecuadoriane a evacuare gli animali e dichiarare lo stato d’emergenza;
quello della Prestige, che nel novembre del 2002 si spaccò in due
tronconi, invadendo le coste spagnole della Galizia
con 60.000 tonnellate di petrolio. Il più grave in assoluto fu, tuttavia,
quello verificatosi nel 1979 al largo di Trinidad
e Tobago: la collisione di due superpetroliere, la Aegean Captain e
l'Atlantic Empress, provocò la fuoriuscita di circa 2.160.000 barili
(270.000 tonnellate) di petrolio. Da ricordare anche l’incidente della Haven,
che nell’aprile 1991 scaricò al largo di Genova
50.000 tonnellate di greggio.Solo il 10% degli idrocarburi che contaminano i
mari proviene, tuttavia, da riversamenti accidentali. Il resto proviene da
fonti croniche, quali la ricaduta di particelle inquinanti dall'atmosfera,
infiltrazioni naturali, dilavamento degli oli minerali dispersi nell'ambiente,
perdite di raffinerie o di impianti di trivellazione su piattaforme in mare
aperto e, soprattutto, lo scarico a mare di acque di zavorra da parte di navi
cisterna e petroliere. A causa del sabotaggio degli impianti petroliferi,
durante la guerra
del Golfo, nel 1991, furono riversate nel golfo Persico 460.000 tonnellate
di greggio; sempre nel golfo Persico, nel 1983, si andarono a riversare 540.000
tonnellate di greggio fuoriuscite dalla piattaforma petrolifera Nowruz (il più
grave incidente mai occorso a una piattaforma).La fonte principale
dell'inquinamento marino da idrocarburi (20% dell'inquinamento totale) rimane,
tuttavia, lo scarico in mare di acque contaminate nel corso di operazioni di
lavaggio delle cisterne. Una volta consegnato il proprio carico alle
raffinerie, le petroliere pompano nelle cisterne acqua che serve da zavorra per
il viaggio di ritorno e che viene scaricata in mare prima di giungere ai
terminali di carico, contribuendo, così, a produrre un tipo di inquinamento
sistematico, o cronico, spesso molto più grave di quello accidentale. I grumi
di catrame
che si depositano sulle spiagge nelle località balneari derivano perlopiù dai
residui contenuti nelle acque di zavorra scaricate in mare. L'impiego di questa
tecnica di lavaggio è stato limitato, a partire dagli anni Settanta, da una
serie di convenzioni internazionali, che hanno imposto la realizzazione di
petroliere progettate in modo tale da rendere minima la fuoriuscita di greggio
in caso di incidente, l'installazione a bordo di sistemi per la separazione dei
residui di petrolio dalle acque di zavorra e di lavaggio pompate in mare,
l'adozione di dispositivi per il controllo del grado di inquinamento delle
acque di zavorra e l'installazione di impianti per la raccolta e il trattamento
delle acque contaminate presso i terminali di carico del greggio e i porti di
scalo.
Anche i
giacimenti di petrolio su terraferma possono provocare gravi danni
all'ambiente. In questo caso, le fuoriuscite nocive sono dovute, nella maggior
parte dei casi, alla cattiva progettazione, gestione e manutenzione degli
impianti. Nell'Ecuador, ad esempio, il grave e diffuso inquinamento del suolo e
dei corpi idrici di alcune zone è causato soprattutto da improvvise 'eruzioni'
di petrolio dai pozzi durante le operazioni di trivellazione, dalla dispersione
abusiva del petrolio meno pregiato e dal cattivo funzionamento dei sistemi per
la separazione del petrolio dall'acqua. Il grave inquinamento da idrocarburi di
alcune regioni della Russia è dovuto a cattiva manutenzione degli oleodotti.
Nell'ottobre del 1994 nei pressi di Usinsk, non lontano dal Circolo polare
artico, da una falla apertasi in un oleodotto fuoriuscirono 60.000-80.000
tonnellate di greggio che devastarono i delicati ecosistemi della tundra
e della taiga.
Alle alte latitudini, i naturali processi di degradazione del greggio si
svolgono con molta lentezza e ciò contribuisce ad aggravare l'impatto di
episodi come questo. Anche nelle regioni tropicali, tuttavia, i danni causati
dal petrolio non sono indifferenti. Gli oleodotti che attraversano la regione
del delta del Niger,
in Nigeria, sono obsoleti e molto usurati; le perdite sono frequentissime e i
tentativi di risolvere il problema bruciando i residui dispersi sul terreno o
lasciando che il petrolio disperso finisca con il degradarsi al calore del sole
hanno ottenuto un effetto deleterio: sui terreni si è formata una crosta
sterile di un paio di metri che ha reso tali terreni praticamente
inutilizzabili.
Di norma il
petrolio scaricato in mare viene degradato naturalmente dall'ambiente
attraverso processi fisici, chimici e biologici. Galleggiando sull'acqua, il
greggio si allarga rapidamente in un'ampia chiazza, disponendosi in strati di
vario spessore, che le correnti e i venti trasportano a grandi distanze e
dividono in 'banchi', disposti parallelamente alla direzione dei venti
prevalenti. Le frazioni più volatili del petrolio evaporano nel giro di pochi
giorni, perdendo in poche ore una notevole porzione della propria massa. Alcune
componenti penetrano negli strati superiori dell'acqua, dove producono effetti
molto nocivi sugli organismi marini e lentamente vengono ossidate
biochimicamente a opera di batteri, funghi e alghe. Le frazioni più pesanti
vagano, invece, sulla superficie del mare, fino a formare grumi difficilmente
degradabili che affondano lentamente fino a raggiungere il fondo marino.I tempi
richiesti da questo processo di degradazione variano a seconda delle condizioni
del mare, delle condizioni meteorologiche, della temperatura e del tipo di
inquinante. Quando, nel gennaio del 1993, la petroliera Braer fece
naufragio al largo delle isole Shetland, le condizioni meteorologiche (forti
venti spiravano da terra verso il mare aperto), quelle del mare (burrascoso) e
il particolare tipo di petrolio trasportato (relativamente leggero) favorirono
la dispersione di 680.000 barili di greggio, cosicché solo un'area molto
localizzata delle coste subì danni di una certa rilevanza (a essere danneggiati
furono, perlopiù, alcune acquacolture e le popolazioni locali di uccelli
marini).Il petrolio disperso in mare può causare gravi danni alle specie marine
di superficie, soprattutto uccelli,
ma anche mammiferi
e rettili.
Il piumaggio degli uccelli marini, imbrattato dal petrolio, viene spesso
irrimediabilmente rovinato e gli uccelli stessi, nel tentativo di ripulirsi,
ingeriscono notevoli quantità di petrolio che causa intossicazioni talvolta
letali. Il petrolio che va a riversarsi sulle coste può distruggere interi ecosistemi
particolarmente sensibili (barriere
coralline,paludi
salmastre, foreste di mangrovie)
e provocare seri danni a svariate attività commerciali, quali la pesca e
l'acquacoltura, o al turismo.
Una delle
soluzioni più utilizzate in passato per rimediare all'inquinamento accidentale
da petrolio consisteva nell'irrorare le pellicole oleose con sostanze
emulsionanti. Le emulsioni risultavano, tuttavia, in qualche caso molto più
dannose del petrolio stesso e tale tecnica è stata pertanto progressivamente
abbandonata. Oggi si preferisce ricorrere a barriere galleggianti o a speciali
imbarcazioni che raccolgono il petrolio effettuando una sorta di raschiatura
sulla superficie del mare; le macchie di petrolio vengono ancora spruzzate con
agenti emulsionanti solo nel caso in cui minaccino di raggiungere la costa.
Il petrolio che
si riversa sulle spiagge non viene sottoposto ad alcun trattamento: in genere
si preferisce aspettare che a degradarlo provvedano i normali meccanismi di
decomposizione. Nel caso in cui a essere colpite siano località balneari, si
preferisce rimuovere gli strati superficiali di sabbia, piuttosto che ricorrere
a solventi ed emulsionanti, i quali farebbero penetrare il petrolio più in
profondità. I solventi vengono ancora utilizzati solo per ripulire impianti e
attrezzature. Le pellicole oleose sono state in qualche caso irrorate con batteri
capaci di degradare il petrolio. I risultati sono stati incoraggianti, anche
se, per attivare i batteri e stimolarne la crescita, è necessario aggiungere
alle colture nutrienti potenzialmente nocivi per gli ecosistemi litoranei e per
la qualità delle acque.